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L’IMPUGNAZIONE DELL’INTIMAZIONE DI PAGAMENTO

L’impugnazione dell’intimazione di pagamento

Il contrasto giurisprudenziale sull’impugnazione dell’intimazione di pagamento

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La questione è di stretta attualità, dal momento che Agenzia delle Entrate – Riscossione sta inviando in maniera sempre più massiva ai contribuenti l’intimazione di pagare entro lo stretto termine di 5 giorni le cartelle esattoriali pendenti, pena l’avvio delle azioni esecutive.

L’attuale contrasto giurisprudenziale, anche in seno alla Corte di Cassazione, è tra la tesi, a favore dell’Erario, che il contribuente debba provvedere ad impugnare la primissima intimazione di pagamento ricevuta, pena la “cristallizzazione della pretesa”, e la tesi più permissiva, a favore del cittadino, secondo la quale si può sempre impugnare l’ultima intimazione di pagamento, senza decadere dal poter contestare l’intervenuta prescrizione.

1) L’impugnazione dell’intimazione di pagamento

Il contrasto giurisprudenziale tra le due tesi è arrivato sino in Cassazione e, nella recente ordinanza n. 16743/2024, è stato riaffermato il condivisibile principio secondo il quale anche impugnando l’ultima intimazione di pagamento ricevuta il contribuente può fare valere la prescrizione maturata tra la data di notifica delle singole cartelle di pagamento presupposte e quella di notifica del primo avviso di intimazione non impugnato.

La Suprema Corte ha infatti ribadito che l’avviso di intimazione di per sé non è un atto previsto tra quelli di cui all’art. 19, D. Lgs. n. 546/1992; conseguentemente, l’impugnazione di tale avviso costituisce una FACOLTÁ e non un obbligo per l’interessato, che pertanto non ha alcun onere di impugnare il primo avviso di intimazione per fare valere la prescrizione dei crediti erariali già maturata.

Inoltre, va considerato questo ulteriore aspetto, di non secondaria importanza.

La cartella esattoriale, ma ancor più l’intimazione di pagamento, svolgono in sede esattoriale la funzione tipica che in sede civile è rappresentata dall’atto di precetto.

Ed è noto che l’atto di precetto conserva efficacia per 90 giorni dalla sua notifica e che decorso questo termine senza che sia avviata l’esecuzione vera e propria con atto di pignoramento, cade in perenzione; al creditore quindi, decorso quindi infruttuosamente il suddetto termine, non resta che “ripartire da capo”, notificando un nuovo atto di precetto.

Anche in sede esattoriale avviene un procedimento simile; se le cartelle sono state notificate da più di un anno, ovvero anche se una precedente intimazione di pagamento è stata notificata da oltre un anno, non può essere avviata nessuna esecuzione, visto che le cartelle divengono “inattive”.

Ebbene, se in sede civile è assolutamente consentito impugnare il successivo atto di precetto, visto che i precedenti non hanno avuto esecuzione e sono caduti in perenzione, non è fondatamente sostenibile che il contribuente non possa fare altrettanto in sede tributaria.

Inoltre, in sede civile, con l’opposizione all’esecuzione, è sempre possibile far valere i “vizi del titolo sottostante” (salvo ovviamente il passaggio in giudicato), senza che si possa opporre la “cristallizzazione della pretesa” derivante da un precetto caduto in perenzione.

Nel “Formulario sul Primo Grado del Contenzioso tributario viene esaminata approfonditamente questa problematica di stretta attualità, fornendo lo strumento per impugnare, arricchito con le argomentazioni della recente sentenza della Cassazione n. 16743/2024, l’intimazione di pagamento dell’Agente della Riscossione.

Fonte immagine: Foto di Gerd Altmann da Pixabay
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