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PATTO DI NON CONCORRENZA: IL COMPENSO PUÒ ESSERE VARIABILE

Patto di non concorrenza: il compenso può essere variabile

Ordinanza n. 9258/2025 accolto il ricorso di una banca che richiedeva un risarcimento milionario. Due i criteri per definire la validità del patto di non concorrenza

La Corte di Cassazione  si è pronunciata con ordinanza n. 9258 depositata l’8 aprile 2025 su una vicenda riguardante la disciplina del patto di non concorrenza. La conclusione cui giungono i supremi giudici riconferma  che il patto  è legittimo solo se tutela sia il datore di lavoro che il dipendente, garantendo a quest’ultimo un compenso adeguato e ben definito. ma precisa che si tratta di due criteri distinti  che la cui valutazione nel caso di specie non è  stata rispettata, per cui la sentenza favorevole al lavoratore è stata cassata.

Vediamo i dettagli del caso e le motivazioni della sentenza.

1) Nullità del patto di non concorrenza per compenso indeterminato: il caso

Nel 2014 un istituto finanziario aveva firmato con un proprio dipendente, il sig. A.A., un patto di non concorrenza della durata di 20 mesi dopo l'eventuale fine del rapporto di lavoro.

 Secondo questo accordo, il lavoratore non avrebbe potuto svolgere la stessa attività (quella di private banker) presso banche concorrenti né contattare i clienti gestiti in precedenza, almeno nell’ambito della regione Lombardia. In cambio, la banca si impegnava a pagargli un corrispettivo annuo di 12.000 euro, da erogare in due rate durante il rapporto di lavoro.

Quando però il dipendente si dimise nel novembre 2016 e iniziò a lavorare per un concorrente  l'istituto di credito lo accusò di aver violato il patto, sostenendo che avesse  sviato numerosi clienti verso ill suo nuovo datore di lavoro. Per questo motivo lo citò in giudizio chiedendo un risarcimento danni molto consistente: 48.000 euro a titolo di penale contrattuale, oltre a un danno patrimoniale stimato in oltre 2 milioni e mezzo di euro (in subordine mezzo milione) e un ulteriore danno non patrimoniale di 50.000 euro.

Tuttavia, il Tribunale di Milano diede ragione al lavoratore, dichiarando nullo il patto di non concorrenza in quanto " il corrispettivo è stato ritenuto indeterminato e indeterminabile sulla base delle clausole negoziali del patto, in quanto correlato alla durata del rapporto di lavoro e in mancanza di un minimo garantito",   quindi contrario a quanto stabilisce il Codice civile. 

La decisione venne confermata in appello.

La Cassazione ha  invece  accolto il ricorso dell'Istituto di credito cassando la sentenza di merito . 


2) Patto di non concorrenza valido se il compenso è determinabile

I giudici della Suprema Corte hanno accolto uno dei motivi di ricorso presentati dalla società  e hanno stabilito che la sentenza della Corte d’Appello di Milano deve essere annullata.

Secondo la Cassazione, i giudici di merito avevano confuso due aspetti giuridici molto diversi: la "determinabilità" del compenso e la sua "congruità". 

Si tratta infatti di due requisiti distinti che un patto di non concorrenza deve rispettare. 

  1. Da un lato, il corrispettivo deve essere determinato o almeno determinabile con criteri oggettivi.
  2. Dall’altro, la cifra pattuita non deve essere simbolica o sproporzionata rispetto al sacrificio chiesto al lavoratore.

Nel caso in esame, il compenso era effettivamente previsto nel contratto (12.000 euro l’anno), ma i giudici d’appello hanno ritenuto che non fosse sufficiente perché legato alla durata effettiva del rapporto di lavoro, e senza un "minimo garantito". Questo li ha portati a considerare il patto nullo. 

Ma la Cassazione ha fatto notare che la variabilità del compenso in base alla durata del rapporto non significa automaticamente che sia indeterminabile. Se esistono elementi oggettivi da cui ricavarlo, il patto può essere valido.

Gli ermellini hanno affermato  nello specifico che:  "la variabilità del corrispettivo rispetto alla durata del rapporto di lavoro non significa che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi, a tal fine dovendo tenersi anche conto del fatto che la banca ha contestato che la cessazione del rapporto effettivamente avesse influenza sull'ammontare dovuto. Dunque la sentenza impugnata

non tiene adeguatamente distinte le due cause di nullità del patto di non concorrenza che operano giuridicamente su piani diversi: un vizio sotto l'aspetto della determinatezza o determinabilità

dell'oggetto e l'altro sotto il profilo dell'ammontare del corrispettivo simbolico o manifestamente  iniquo o sproporzionato."

La Corte d’Appello dovrà quindi  esaminare di nuovo la questione, in diversa composizione. I giudici dovranno fare due verifiche ben distinte.

  1.  Primo, stabilire se il corrispettivo previsto dal patto fosse determinato o determinabile in modo oggettivo. 
  2. secondo, una volta accertato questo, valutare se la somma fosse congrua, cioè non simbolica e proporzionata alla limitazione imposta al lavoratore.

Solo se uno di questi due requisiti manca, il patto potrà essere considerato nullo. In caso contrario, la banca potrà far valere il patto e chiedere eventualmente un risarcimento per la sua violazione.

La sentenza  chiarisce ancora una volta quali sono i criteri per valutare la validità di un patto di non concorrenza sulla scorta delle precedenti Cass. n. 5540/2021 e Cass. n. 33424/2022, a conferma di un orientamento ormai consolidato.

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